Un articolo di Franco Squeri
Qualche riflessione sull’altra metà del Judo, che è poi il ruolo di uke, che assumiamo alternativamente nella pratica. È un invito a considerare che il Judo si pratica in due, in comunione d’intenti.
Fin dalla prima lezione viene insegnato all’aspirante judoista che il Judo si pratica in coppia: chi esegue l’azione prende il nome di tori e chi la subisce quello di uke.
All’allievo viene quindi insegnato a cadere, spesso solo approssimativamente, in modo che possa subire proiezioni senza danno, e la pratica prosegue più o meno su questi binari: studiando le proiezioni e i controlli ed arrangiandosi in qualche modo a cadere, cosa che, soprattutto se i tatami mancano di un adeguato telaio di sospensione, in genere non riscuote un elevato indice di gradimento.
Quando poi viene il momento della preparazione alla gara, meta di ogni vero sportivo, l’allenamento si sposta sul randori da combattimento, cercare ad ogni costo di buttar giù l’avversario evitando il contrario e, nel caso si dovesse proprio cadere, farlo senza battere mai ( non si sa mai che in gara l’arbitro scambi un ippon per uno yuko! ).
A Bertinoro ci fu addirittura un maestro inglese che raccontava di trascurare l’insegnamento della caduta ai suoi agonisti, perché se ne avevano paura avrebbero concesso ancor meno all’avversario, e deve essere un modo di pensare diffuso giacché ci è giunta voce che la tesi d’esame per 5° dan d’un grande personaggio del Judo italiano ( tesi che ha meritato la lode ) terminava con un proclama: “Basta con le cadute, basta con il Go-Kyo, basta con i Kata!”.
Fare uke viene considerato un male necessario, una pausa nella fatica dell’uchi-komi, visto che dopo-tutto nel Judo non ci si può allenare da soli come nel body-building o nel Karate.
Quando poi viene il momento di affrontare un esame, e il relativo Kata, si scatena la caccia a quei rari personaggi leggeri e agili che hanno naturalmente la predisposizione a cadere, per poter fare bella figura.
È probabile che un giovane agonista non si sia mai posto alcun interrogativo sulla natura del Judo, anche se gli son giunte all’orecchio frasi del tipo: “Il Judo è una via” e “Amicizia e mutua prosperità”, magari solo dalle pagine d’un piccolo libro sfogliato distrattamente in palestra.
Può darsi che per lui il Judo continui a restare semplicemente uno sport agonistico come tanti altri, e che si senta umiliato e offeso imbattendosi per caso in un Maestro un po’ eccentrico che invece di spiegare l’ennesima variante di Tai Otoshi, insiste con dovizia di particolari sulle cadute, sulla posizione d’arrivo delle gambe, sull’elasticità della battuta, proseguendo poi a correggere la posizione eretta a addirittura come si cammina. Naturalmente un tale Maestro è anche tremendamente fissato sull’importanza dei Kata!
Il ruolo di uke nella pratica.
Benché l’importanza del ruolo di uke scaturisca naturalmente dai principi che Jigoro Kano pose a fondamento del Judo ( cioè Ji-ta-kyo-ei e Sei-ryoku-zen’yo ) e dall’insistenza con cui egli parla di modificare la tecnica e la didattica delle cadute del Jiu-Jitsu, per molti può essere più chiaro analizzare questo aspetto specificatamente.
Innanzitutto uke non è un passivo attrezzo di allenamento, bensì il fulcro attorno al quale ruota l’apprendimento.
La sua funzione primaria è infatti quella di allenatore ed il suo compito consiste nel far progredire il compagno.
Questo vuol dire mettersi mentalmente a disposizione dell’altro, un po’ come un giardiniere che accudisce con amore alla pianticella per farla crescere sana e rigogliosa.
Detto per inciso, imparare ad essere uke è la base per diventare insegnante.
È evidente che quanto più si conosce il Judo, disponendo di posizione e tecnica, tanto più si potrà svolgere responsabilmente il ruolo di allenatore, questo però non significa che debbano fare uke solo le Cinture Nere!
Si accede a questo ruolo, secondo le proprie capacità, fin dal primo giorno.
La giusta predisposizione d’animo prevede costante attenzione verso il fare del compagno per costruire assieme la situazione ideale in cui egli deve esercitarsi.
Questo significa da un lato, individuare e ripudiare ogni atteggiamento che possa essergli di inutile ostacolo, dall’altro, guidarlo a fare meglio, evidenziando gli errori perché possa correggersi.
Parlando il meno possibile, uke deve anche imparare ad insegnare con il corpo, senza imbrogliare paternalisticamente il compagno col rendergli le cose troppo facili, ma neppure schiacciandolo con eccessive difficoltà.
È infatti cosa ben diversa praticare con un giovane robusto, con un esile fanciulla, o con un anziano signore!
Cadere al minimo accenno di tecnica equivale, in termini di sincerità, a non cadere mai, perché nel primo caso si illude tori e nel secondo caso lo si inibisce nella sua ricerca.
È nella corretta pratica di Ji-ta-kyo-ei che scaturisce il comportamento ideale.
Facendo un passo avanti, accanto alla sincerità di intenti occorre realtà nell’azione.
Se uke non si difende o non attacca in modo corretto diventa infatti impossibile mettere a punto azioni complesse come combinazioni e contrattacchi, e tutto si risolve in confusione e in movimenti rozzi e disordinati.
Anche nel semplice studio della è richiesto un atteggiamento realistico del corpo e del movimento.
Dovendo muovere un passo avanti bisogna farlo con naturalezza e non prudentemente mantenendo il peso sulla gamba arretrata per timore di essere proiettati, preferendo accoccolarsi al suolo spontaneamente.
Avete presente il problema degli Ashi-waza in tali condizioni?
Saper cadere.
Saper cadere è importante sia per se stessi che per gli altri.
In quanto allenatore uke dovrà essere sempre pronto a supplire alle manchevolezze del compagno il quale, dal canto suo, si sentirà più sicuro e tranquillo.
La certezza di saper cadere è un requisito fondamentale anche per progredire come tori.
C’è un Maestro che afferma che per migliorare le prestazioni di certi gruppi agonistici, la prima cura consiste nel convincere gli atleti di essere particolarmente abili nelle cadute, in modo da poter chiedere loro prestazioni più spericolate senza che vi siano esitazioni inconsce dovute al timore di ferirsi.
Una cosa importante da comprendere è che il cadere correttamente non è l’effetto della proiezione subita, ma l’applicazione consapevole della tecnica di ukemi-waza.
Si tratta di un fare attivo e non di un subire passivo.
Questo aspetto viene messo in evidenza nell’Aikido dove, mancando quel livello di controllo del corpo che p invece presente nel Judo, uke è costretto a scrollarsi di dosso paure e blocchi emotivi.
Kata e randori.
Il Kata richiede a uke un livello di comprensione e di sincerità più elevato.
Nella tecnica stilizzata del Ju-no-kata, in quella impietosa del Kime-no-kata, o anche solo nel più conosciuto Nage-no-kata, le tecniche si elevano a principio d’azione, richiedendo ad entrambi gli esecutori un notevole impegno per ricreare insieme la situazione da dimostrare.
Se uke si presta a subire passivamente, come un sacco di patate, il Kata perde di significato e finisce per ridursi ad un puro esercizio mnemonico senza scopo.
E nel randori?
Il modo in cui si fa randori riflette il lavoro svolto si a come tori che come uke.
Qui si è concentrati solo sull’applicazione tecnica, cioè sul fare ippon, ed atteggiamenti ostruzionistici dovuti al cercare di prevalere sul compagno o alla paura di cadere non devono trovarvi posto.
Nel momento in cui si perde l’equilibrio ed il controllo della posizione eretta viene meno, si diventa a tutti gli effetti degli uke, applicando la corretta tecnica di caduta ( cosa che invece può non accadere in competizione, soprattutto ad alto livello ).
Il randori permette di agire in piena serenità solo se entrambi i praticanti dimostrano di non avere difetti o esitazioni nella caduta.
Si può così sviluppare quella gioiosa ricerca del miglior impiego dell’energia per progredire assieme, che è l’essenza del Judo.
Un articolo di Franco Squeri